In questa sezione pubblichiamo inchieste e articoli divulgativi per tracciare l’identikit del pedofilo ed evidenziare le peculiarità della pedofilia di matrice ecclesiastica

«La violenza su un bambino è un omicidio psichico»

«La pedofilia è l’esito estremo di un processo di annullamento della sessualità» dice in questa intervista la pediatra e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti

Le domande esca di un prete pedofilo alla sua preda

Come è emerso dall’indagine conoscitiva della Conferenza episcopale tedesca del 2011-2014, sono queste solitamente le domande utilizzate dal predatore di bambini per carpire informazioni e per verificare il grado di vulnerabilità della possibile preda: «Hai commesso atti impuri? Quali? Ti sei toccato? Dove? Quello che hai fatto è un peccato molto grave, difficile da perdonare, lo sai? Se fai quello che ti dico, chiederò io a Dio di perdonarti, sei d’accordo? Sai mantenere un segreto?». Le ha rese note il vescovo di Treviri, Stephan Ackermann. «Ogni violenza che abbiamo accertato era premeditata con perfidia. I sacerdoti hanno carpito “pazientemente” la fiducia delle loro vittime e, dopo la manipolazione psicologica, ne hanno abusato in momenti di tranquillità. Durante la preghiera, durante la confessione» ha detto mons. Ackermann che nel 2010 è stato responsabile della commissione indipendente d’inchiesta commissionata dalla Chiesa tedesca nelle diocesi di Monaco, Essen, Magonza e Ratisbona. Al termine dell’indagine sono state accertate circa 1.200 vittime di sacerdoti pedofili negli anni dal 1950 al 1980.

Fonte C. Lindner, M. Ruch, M. Kratzer, Bischof Ackermann: Die Kirche hat vertuscht, in “Rhein Zeitung”, 16 marzo 2010 – pubblicato sul libro “Chiesa e pedofilia” di Federico Tulli (L’Asino d’oro ed., 2010)

Alle radici del silenzio, dell'omertà, della complicità, dell'impunità #1

«Esistono delle caratteristiche tipiche della pedofilia clericale, senza con ciò voler creare un’inutile gerarchia tra reati. La sua specificità è data dalla dimensione sacrale (il ruolo del sacerdote che sfrutta il ‘sentimento’ religioso, la sua autorità e la sua paternità fittizia per abusare di un minore); dalla dimensione spirituale: i danni alle vittime implicano un diverso senso di colpa e di vergogna, una perdita di fiducia e la sensazione di tradimento, una confusione di carattere morale che coinvolgono appunto la sfera spirituale; dalla dimensione sociale: lo status del sacerdote, del religioso e della religiosa che godono di privilegi e di un credito socialmente riconosciuto molto più alto di qualsiasi altro membro della società, proprio in funzione di quella natura sacra che caratterizza la loro figura; dalla dimensione istituzionale: la vittima ha a che fare non solo con il suo carnefice, ma con un’istituzione, di cui il pedofilo fa parte, che agisce anche a livello politico, oltre che sociale e religioso, con suoi propri organi di propaganda e informazione e che mette in piedi una rete di complicità. Istituzione che contiene al proprio interno una serie di elementi che favoriscono il fenomeno degli abusi e che attirano, proprio per la scarsità dei controlli e la risibilità delle pene, personalità abusanti. Tra questi elementi c’è l’imposizione obbligatoria del celibato, che è una con-causa della pedofilia clericale, perché contribuisce a formare una personalità immatura; a maggior ragione se il celibato è imposto come stile di vita a giovani adolescenti, come accade nei seminari minori e in molte istituzioni cattoliche».

Fonte Brano tratto da un articolo del politologo T. Dell’Era pubblicato su Adista Segni Nuovi del 4 giugno 2011

Alle radici del silenzio, dell'omertà, della complicità, dell'impunità #2

Ton Leerschool è nato e vive in Olanda. Vittima a 13 anni di un sacerdote pedofilo, è membro del Cda di Mannenhulpverlening na seksueel misbruik, una fondazione non-profit che si occupa delle vittime di abusi sessuali. Nel 2011 ha fondato, insieme con Sue Cox, Survivors voice Europe, un’associazione internazionale per la tutela dei diritti di persone violentate in età prepubere da preti. In quello stesso anno la “Commissione Deetman” si è avvalsa anche della “consulenza” di Leerschool. La Commissione Deetman è stato un organismo indipendente che ha indagato sui crimini pedofili nella Chiesa olandese tra il secondo Novecento e i primi anni Duemila, riuscendo a ricostruire le responsabilità di circa 850 sacerdoti e stimando un numero di vittime compreso tra 10mila e 20mila. Ecco cosa ci ha raccontato Leerschool: «Chi ascolta attentamente le dichiarazioni della Chiesa cattolica si rende conto che le frasi allontanano velocemente l’attenzione dal passato, portandola sul presente e sul futuro». La Chiesa, aggiunge, «vuole farci credere che gli abusi non si ripeteranno nel futuro, ma non vuole assolutamente ripulire o risolvere i danni procurati nel passato. I casi di abusi “sessuali” al suo interno non sono incidentali, ma sono strutturali in tutto il mondo, in tutte le scuole cattoliche, negli ospedali, negli istituti: l’abuso non è un difetto nel sistema, l’abuso era ed è “il” sistema della Chiesa cattolica. Non aspettiamoci che ripuliscano il danno fatto per loro scelta, non lo faranno mai. Solo incalzandoli con crescenti e continue pressioni da tutti i fronti, politico, opinione pubblica, cattolici praticanti e così via, potremo vedere un giorno i responsabili in ginocchio».

Fonte Brano dell’intervista di Federico Tulli a Ton Leerschool pubblicata sul libro “Chiesa e pedofilia” di F. Tulli (L’Asino d’oro ed., 2010)

Raffaello Sanzio, Ritratto di Giulio II (1511); National Gallery, Londra

Alle radici del silenzio, dell'omertà, della complicità, dell'impunità #3

È l’anno 305 quando il Concilio di Elvira stabilisce come punizione per gli «stupratores puerorum» il rifiuto della comunione. Poi, per un migliaio di anni poco o nulla viene tramandato. Certamente non perché miracolosamente gli abusi siano cessati. 
Nota lo storiografo Claudio Rendina nel suo libro I peccati del Vaticano (Newton Compton, 2009):

Stranamente l’alto e basso Medioevo non ci rivelano casi di pedofilia nei quali siano coinvolti ecclesiastici, ma questo dipende anche dall’ignominioso concetto che i bambini di quel tempo sono ritenuti posseduti dal demonio, tanto da essere torturati e bruciati vivi affinché possano espiare le loro colpe. Questi bambini non sono altro che i capri espiatori su cui sfogare libidini, risentimenti politico-religiosi, superstizioni e paure di un’intera comunità, e quindi eventuali casi di pedofilia rientrano nell’applicazione di certe condanne.

Tutta la storia della Chiesa è dunque attraversata da episodi di abusi e violenze sui bambini di cui si sono resi protagonisti anche numerosi pontefici. 
Dal 366, con Damaso I, fino al 1550, con Giulio III, se ne contano diciassette. Come Sergio III il quale, salito al trono pontificio nel 904 a quarantacinque anni, ebbe per amante la quindicenne Marozia. E come Sisto IV, papa dal 1471 al 1484, noto alle cronache dell’epoca per la sua relazione con un dodicenne. E poi ancora Giulio II, nel 1511, con il piccolo Gonzaga di dieci anni. E Giulio III con Innocenzo del Monte, anche lui dodicenne, che lo stesso Papa nominerà cardinale a diciott’anni. 
Siamo nel 1550 e una pasquinata di allora recita:

Ama Del Monte con ugual ardore
la scimmia e il servitore.
Egli al vago femmineo garzoncello
ha mandato il cappello*: 
perché la scimmia, a trattamento uguale,
non fa pur cardinale?

*nb. l’ha nominato cardinale

FonteChiesa e pedofilia” di Federico Tulli (L’Asino d’oro ed., 2010), pp.19-20

Alle radici del silenzio, dell'omertà, della complicità, dell'impunità #4

La sapiente opera dell’Inquisizione romana (fondata nel 1542 da Paolo III) riuscì a far passare sotto silenzio per i tre secoli successivi le violenze sui bambini commesse da uomini di Chiesa

E dunque guardiamo in faccia la verità: che è quella di una turpitudine storica e non solo episodica, giuridica e non solo morale. Questa vicenda è cominciata secoli fa: la inaugurò papa Paolo IV Carafa quando nel 1559 stabilì che i preti e i frati colpevoli di reati di natura sessuale nati nel contesto della confessione sacramentale dovessero essere sottoposti al Sant’Uffizio dell’Inquisizione. Era una misura in apparenza radicale, dura, minacciosa per i colpevoli: in realtà era la via d’uscita per chiudere la conoscenza di episodi scandalosi nello spazio giuridico di un tribunale ecclesiastico segretissimo. La ragione della scelta era ovvia: Lutero aveva bruciato non solo la bolla di scomunica ma anche l’intero corpus del diritto canonico, giudicato da lui una delle muraglie con cui il clero si era alzato al di sopra del popolo cristiano. La Chiesa cattolica ribadì la superiorità sacrale del clero, mantenne il diritto canonico e il privilegio del foro per i chierici e, nel confermare l’obbligo del celibato ecclesiastico, preparò un comodo rifugio per chi lo infrangeva e per chi infangava il sacramento del perdono dei peccati attentando ai minori e alle donne che si affacciavano al confessionale. Da allora e per secoli i processi per i casi di «sollicitatio» sono stati nascosti dal segreto impenetrabile del Sant’Uffizio mentre i colpevoli venivano semplicemente trasferiti di sede per difendere il buon nome del clero: fino a oggi.

Adriano Prosperi, L’obbligo della verità dopo troppi silenzi, su “Repubblica” del 27 marzo 2010 

Fonte Brano tratto da Chiesa e pedofilia di Federico Tulli (L’Asino d’oro ed., 2010)

L'epidemia nascosta. La pedofilia nella Chiesa, prima di Spotlight

Poche ore prima di un altro evento che avrebbe cambiato il corso della storia contemporanea, gli Stati Uniti si sono trovati per la prima volta a fare i conti con un’agghiacciante realtà. È il 10 settembre 2001 quando l’Università di Pennsylvania rende noti i risultati di due anni di studi sul fenomeno degli abusi “sessuali” sui minori compiuti sul territorio nazionale. Le cifre sono drammatiche: un bambino su 100 negli Usa è vittima di crimini che vanno dalla prostituzione alla pornografia ad altre forme di sfruttamento “sessuale”, in casa e a scuola.

A rischio è soprattutto chi scappa di casa o è rimasto senza famiglia. Spesso i bambini che fuggono di casa lo fanno per sottrarsi alle violenze e agli abusi subiscono dai familiari. In totale, spiegano i ricercatori, sono tra i 300 e i 400.000 minori vittime del cd. mercato del “sesso”, femmine e maschi in egual misura. Lo sfruttamento “sessuale” – racconta al New York Times Richard Estes, uno degli autori della ricerca commissionata dal dipartimento della Giustizia alla National association of social workers e alla facoltà di Scienze sociali della University of Pennsylvania – è la forma più nascosta di abuso sui minori che esista al giorno d’oggi. È l’epidemia meno conosciuta della nazione.

Ma l’America non ha tempo di interrogarsi. L’attacco di al-qa‘ida alle Twin Tower rimanderà di tre mesi la presa d’atto della Nazione nei confronti di un cancro, quello della pedofilia, che non aveva attecchito solo nelle abitazioni e nelle scuole.

All’inizio di gennaio del 2002 la condanna a dieci anni di carcere, comminata a un prete della diocesi di Boston per aver violentato un bimbo di dieci anni, scoperchia una botola su un pozzo che in poco tempo si rivelerà senza fondo.

Il sacerdote si chiama John J. Geoghan, ha sessantasei anni, ed entra in prigione per l’ultimo dei suoi crimini commessi. Nell’arco di trent’anni, Geoghan ha infatti molestato oltre 130 bambini (ma diverse altre fonti gli attribuiscono circa 200 piccole vittime) nelle sei parrocchie dove era stato chiamato a svolgere il suo sacerdozio e da dove ogni volta è stato trasferito nonostante i suoi superiori fossero a conoscenza delle sue tendenze pedofile.

Per questo motivo, il 6 marzo 2002, l’Arcidiocesi di Boston (oltre due milioni di fedeli) guidata da uno degli uomini più influenti e carismatici della Chiesa Usa, il cardinale Bernard Law, accetta di pagare circa 30 milioni di dollari alle famiglie delle vittime. In questo modo Law è convinto di essere riuscito a tappare la falla. Con l’accordo raggiunto vengono risolti 84 casi relativi ad altrettanti episodi di violenza di cui padre Geoghan si era reso responsabile.

Su altre 48 denunce i tribunali del Massachussetts non fanno a tempo a pronunciarsi. Il prete pedofilo viene assassinato in carcere da un altro detenuto ad agosto del 2003.

Nel frattempo la diocesi di Boston e Bernard Law erano finiti sotto la lente dei giornalisti del team Spotlight del Boston globe, per altri nuovi sconvolgenti casi di pedofilia… [Federico Tulli]

Fonte principale Chiesa e pedofilia di Federico Tulli (L’Asino d’oro ed., 2010)

La ragione genera mostri

Chi è davvero interessato a far luce sui crimini pedofili che avvengono negli ambienti ecclesiastici si chiede spesso se Oltre Tevere sia del tutto chiaro il livello delle mostruosità che per decenni, e probabilmente fino a oggi, sono state compiute nella più totale impunità da preti pedofili. Già perché nella Chiesa, dal papa in giù, prevale ancora l’idea che la violenza su un bambino prepubere sia un delitto contro la morale, di cui peraltro non si è macchiato solo il carnefice: le Norme della Chiesa parlano di atto sessuale di un chierico ‘con’ un minore e nessuno le ha cambiate. Nemmeno papa Francesco. Fatto sta che, come per esempio ha ricordato l’avvocato inglese David Greenwood – legale di numerose vittime -, è stato riscontrato che in media ogni singolo pedofilo abusa dozzine di bambini in molteplici occasioni, alludendo alla serialità di questo delitto. La domanda che per primo dovrebbe farsi chi davvero vuole porre le basi per impedire a queste persone di stroncare l’esistenza di esseri umani inermi è: che tipo di profilo ha il pedofilo? È davvero ‘soltanto’ un criminale?

Chiediamo allo psichiatra e psicoterapeuta Domenico Fargnoli di aiutarci a fare chiarezza.

È mia opinione – chiarisce subito Fargnoli – che la pedofilia sia da considerare una malattia, o più precisamente un sintomo di una malattia. Un padre di famiglia, magari con tre figli, che passa gran parte del suo tempo in fantasticherie masturbatorie rivolte al bambino dei vicini, si può davvero considerare esente da ‘disturbi psichici’? La fantasticheria, in quest’ultimo caso, poiché virtuosa, cioè non agita, non avrebbe valore clinico? Credo che sia necessario considerare la persona nel suo complesso e non solo a partire da un comportamento apparentemente ineccepibile». 

In altre parole, uno psichiatra non può limitarsi alla mera constatazione di fatti, nella fattispecie violazioni del codice penale, ma deve indagare anche le ‘intenzioni’. «È così – prosegue Fargnoli –. Si potrebbe porre la domanda se esista una particolare ‘personalità’ pedofilica o se l’agire pedofilico sia il sintomo di uno scompenso psicotico, nella fattispecie schizofrenico, che si esprime con atti di violenza su minori. In altre parole, la condotta pedofilica è il risultato di uno sviluppo progressivo di una personalità con caratteristiche peculiari? O essa segna una rottura nella vita di relazione di un soggetto la cui condotta ‘sessuale’ diventa a un certo punto completamente assurda? Tanto assurda da rivolgersi concretamente verso bambini impuberi o preadolescenti, con un effetto su di loro devastante e traumatico. Rispondere a domande come quelle prima formulate è estremamente difficile, perché dovremmo comprendere come mai alcuni soggetti passano all’atto e altri no. Oppure capire come una psicosi si innesti su di una precedente personalità abnorme. Su questi ultimi temi, la maggior parte degli psichiatri brancola nel buio».

Il magistrato anti-pedofilia Pietro Forno in un’intervista ha detto: «Il discorso sugli abusi viene spesso liquidato come un problema di pedofilia. Ma il prete che abusa di un bambino è più paragonabile a un genitore incestuoso che a un pedofilo di strada che insidia i bambini ai giardinetti. È stato condannato a Milano un sacerdote che nel confessare ragazze di 14 o 15 anni le faceva spogliare e le palpeggiava dicendo: ‘Lo vuole Gesù’. Ecco, il concetto del ‘lo vuole Gesù’ è il punto d’arrivo dell’incesto spirituale».

«Per commentare questa affermazione bisogna partire da un dato di fatto», osserva Fargnoli: «Il sacerdote ha un enorme potere spirituale, tanto che spesso viene chiamato ‘padre’, e questo è significativo. Se guardiamo questi episodi in senso non biologico ma spirituale e morale, ci troviamo di fronte più a un abuso incestuoso che a un classico stupro. Ricordo che anche nelle cronache si parla di atti avvenuti in confessionale. E io mi chiedo: perché proprio in confessionale? Perché proprio in quel luogo e in quel momento? Perché è in quel momento che più intensamente il sacerdote si presenta come rappresentante di Dio. Il confessionale viene considerato, in questa domanda, come luogo dove si consumerebbe in alcuni casi un incesto spirituale, ma non solo: interessante. Ora, il confessionale è anzitutto l’ambito in cui si espongono le proprie colpe, e la colpa delle colpe per il cattolicesimo è esattamente la sessualità. Il sacerdote si trova in questa strana posizione di intermediario fra il soprannaturale e il naturale, fra il sacro e il profano: dovrebbe assolvere a una funzione nobilissima e delicatissima e invece si comporta nel più prosaico e riprovevole dei modi. Si abbandona a una condotta immorale e criminale».

Come mai? «Uno degli aspetti del problema è che il sacerdote manifesta una falsa personalità che viene sollecitata in un punto debole: l’esperienza dell’intimità. La capacità di vivere una relazione irrazionale fra due persone, nella quale si esprime la parte più profonda e autentica del Sé, è uno degli aspetti della sanità mentale: confrontati con questa esigenza alcuni manifestano una drammatica impotenza e un vuoto interiore. Si dissociano completamente e diventano schizofasici: ‘Gesù lo vuole’. Ma non era Gesù che diceva che chi arrecherà un danno a un bambino è meglio che si leghi una macina di mulino al collo e si getti in acqua? I sacerdoti nel confessionale, contravvenendo alla propria missione, cercano un’intimità fisica là dove sarebbe richiesta un’intimità psichica, confondono il corpo con la mente».

In interiore homine habitat veritas diceva sant’Agostino. Ma qual è la veritas, l’intimità dell’uomo, per il prete? «Il rapporto con la trascendenza, con il sacro inteso come assolutamente altro dall’umano, il fascinans et tremendum che nell’esperienza mistica assume l’aspetto di una tensione verso l’annullamento di se stessi nel totale assoggettamento alla divinità», risponde Fargnoli. «Nel sacro si aliena e si smarrisce la dimensione dell’irrazionale, che perde ogni connotazione umana e il riferimento alla realtà concreta del corpo. Nell’agire psicotico del prete che violenta le fanciulle, o le sottopone a punizioni corporali erotizzate come riferiscono le cronache della Controriforma, si evidenzia un cortocircuito mentale e tutta la drammaticità della scissione e della confusione fra spirito e materia che è al centro della dottrina cristiana. Quando la realtà del corpo annullata riaffiora magari per una sollecitazione molto terrena e imprevista nel confessionale, essa dà vita a comportamenti assurdi e paradossali, a una reattività delirante che ‘erotizza’ relazioni e stimoli che dovrebbero rimanere al di fuori della sfera della sessualità. Nella pedofilia è presente una ‘coscienza di significato abnorme’, come la chiamavano gli psicopatologi, o un ‘Bedeutungswahn’, un delirio di significato più o meno circoscritto alla sfera del comportamento sessuale: si prova un’eccitazione di fronte al bambino impubere, come se al suo essere si potesse attribuire un ‘significato’ sessuale. Rispetto al tema del rapporto fra incesto e pedofilia, si può essere d’accordo sul fatto che il prete pedofilo si pone come surrogato idealizzato della figura paterna, e in quanto tale agisce un incesto. Però non deve sfuggire il nesso fra incesto e figlicidio. Per esempio, la tragedia di Edipo nasce dal fatto che Laio, e indirettamente Giocasta, hanno tentato di uccidere il figlio. Il comportamento incestuoso è spesso solo un travestimento reattivo, una mutazione successiva che subisce una tendenza a uccidere rivolta verso una figura filiale. L’abuso del pedofilo il più delle volte tende all’omicidio psichico del bambino e si arresta, quando si arresta, un momento prima dell’annientamento fisico».

Il Vaticano ha predisposto un maggior rigore nei controlli sulle ammissioni ai seminari, in particolare per ‘verificare la reale disponibilità dei candidati a votarsi a una vita di celibato e castità’. Celibato, castità e pedofilia. C’è davvero un nesso? «Il celibato e la castità», racconta lo psichiatra, «sono solo mezzi per perseguire l’annullamento del corpo e dell’identità connessa a ogni forma di desiderio sessuale. Nelle vite dei santi si legge spesso come il digiuno e la conseguente debilitazione organica fosse un espediente per impedire l’insorgere del desiderio. Nell’ambito dell’analisi fin qui svolta, è chiaro che il celibato e la castità in quanto negazione della realtà corporea non possono che facilitare l’insorgere di forme di condotte sessuali perverse, che nei casi estremi si configurano come ‘parafilie’ o pedofilia. Il pedofilo reagisce con un eccitamento sessuale a stimoli che per loro natura, come quelli provenienti dai bambini, non sono sessuali. In lui è presente, come ho già detto, un ‘Bedeutungswahn’, un delirio di significato. Vale a dire una alterazione del pensiero e della capacità di giudizio. Si attribuisce un significato ‘sessuale’ a situazioni di rapporto che niente hanno a che vedere con la sessualità. Ciò è la conseguenza di un annullamento del nesso che intercorre fra realtà fisica e psichica. Da una parte si ha l’ideale di una spiritualità astratta completamente desessualizzata, dall’altra un corpo che ridotto a un fascio di reazioni cieche è suscettibile, quando non si può ignorare la sua esistenza, di indurre un agire autistico e criminale in totale disprezzo delle norme e dei valori alla base della convivenza sociale».

La pedofilia è un fenomeno criminale che ovviamente non si annida solo all’interno della Chiesa. I pochi dati a disposizione dicono che gli abusi avvengono quasi sempre in ambito familiare, o comunque da parte di persone fidate o conosciute dalla vittima. Come si spiega? «Il pedofilo di solito pianifica la propria azione, come dimostra il caso Chiatti, si muove con circospezione e colpisce là dove lo ritiene possibile», sottolinea Fargnoli. «Quindi più conosce le sue vittime più pensa di prevederne le reazioni: se si muove in ambito familiare ovviamente è più al sicuro rispetto a un contesto sconosciuto. In famiglia può contare sulla propria autorità genitoriale e su eventuali complicità di persone che hanno l’interesse a mantenere intatta un’immagine di onorabilità rispetto all’ambiente esterno. Questo meccanismo agisce anche nella Chiesa, che protegge i suoi membri dagli scandali per proteggere se stessa dagli attacchi dei suoi detrattori». 

C’è poi un discorso più complesso, su come la struttura delle relazioni e dei rapporti di potere nell’ambito delle famiglie nelle civiltà occidentali sia stata e sia tutt’oggi funzionale alla trasmissione e alla creazione di processi psicopatologici. 

«La famiglia che uccide era il titolo emblematico di un famoso libro dello psichiatra Morton Schatzman, in cui si analizzava il rapporto fra padre e figlio: il presidente [della Corte di Appello di Dresda, NdA] Paul Schreber, autore delle Memorie di un malato di nervi (analizzate da Freud nel 1911), e suo padre Moritz, celebre educatore e inventore di metodi pedagogici coercitivi. La psicosi di Schreber si potrebbe mettere, secondo Schatzman, in relazione con gli ‘abusi’ del padre, particolarmente autoritario e disumano coi figli. Da alcune ricostruzioni storiche e biografiche sappiamo che il ‘presidente’ potrebbe essere stato violentato dal fratello Gustav, morto poi suicida, che avrebbe dovuto sorvegliare, per volontà paterna, le tendenze masturbatorie del più piccolo Paul».

L’avvocato Greenwood ha spiegato che molto spesso le vittime di un pedofilo non denunciano l’abuso per un forte senso di vergogna e paura, puntando il dito contro il giudizio morale che ancora oggi ‘pesa’ su chi viene stuprato. Questo accade anche nelle violenze subite dalle donne. C’è un retaggio culturale che finisce per fornire una sorta di immunità agli stupratori. 

«Sappiamo che nella psichiatria americana e quindi mondiale c’è una tendenza a fornire un alibi ‘biologico’ ai pedofili: brave persone, anche ‘virtuose’, ma nate con una connettività cerebrale diversa da quella degli eterosessuali. Non sono responsabili di essere come sono: quindi non c’è nessun senso di colpa da elaborare. Ma se non ci sono violentatori non ci sono neppure violentati. La pedofilia rientrerebbe nell’ordine naturale delle cose. Che dire poi dell’idea freudiana che nella sessualità cosiddetta normale ci sarebbe comunque una componente di sadismo? Che dire dell’idea del bambino come polimorfo perverso, cioè potenziale seduttore di adulti? Che dire della difesa di Michel Foucault e di molti altri intellettuali francesi della cosiddetta ‘pedofilia dolce’? Quel Foucault il cui pensiero è stato adottato acriticamente in Italia da Franco Basaglia e Peppe Dell’Acqua. Oltre a ciò, oltre a essere immersi in una cultura che deriva direttamente dalla paideia greca e ne rinnova la tradizione, noi siamo bombardati da una spettacolarizzazione della violenza attraverso il cinema, la televisione, i mass media. L’omicidio, le stragi fanno audience. E noi ci convinciamo che uccidere è normale. ‘Le persone normali, tutti noi potremmo rientrare in una storia di delitti’ ha scritto Vittorino Andreoli. E perché no, anche di pedofilia. E le vittime si convincono dell’ineluttabilità di essere tali perché, come ci raccontano i ‘cattivi maestri’, il mondo gira in questo modo. Anche Gesù in fondo è stato una vittima, ma non si è ribellato alla volontà del Padre che lo aveva abbandonato alla sua sofferenza nell’Orto del Getsemani. Anche i papi, in tempi recentissimi, hanno concesso l’impunità a noti pedofili nelle gerarchie ecclesiastiche come al fondatore dei Legionari di Cristo».

Ciò significa che si deve subire in silenzio? «Molti ci hanno creduto e continuano a crederci, come le donne violentate e massacrate da coloro che dichiaravano di comportarsi così in nome dell’amore. Il figlicidio, come si evince dalle cronache, spesso si accompagna al femminicidio: i due fenomeni hanno origine dalla medesima mentalità. La ragione, che ha il suo fulcro nell’identificazione con il padre, genera mostri. Non però durante il sonno, come diceva il pittore spagnolo Francisco Goya in una sua famosissima litografia del 1797, ma nello stato di veglia e di coscienza», precisa Fargnoli. «E questi mostri partoriti da una razionalità morbosa», conclude lo psichiatra, «sembrano trasparenti: si aggirano nelle nostre società senza che nessuno sia capace di vederli e riconoscerli, prima che la loro violenza lasci un segno tangibile nella morte di innumerevoli vittime».

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Brano dell’intervista di Federico Tulli allo psichiatra e psicoterapeuta Domenico Fargnoli tratto da Chiesa e pedofilia, il caso italiano (L’Asino d’oro edizioni, 2014)

Pedofilia nella Chiesa, perché non è una questione di celibato dei preti

di Maria Gabriella Gatti*

 

“Chiesa e pedofilia, il caso italiano”, il secondo libro che Federico Tulli  dedica al tema della pedofilia, assume un particolare significato nell’attuale contesto politico-culturale: esso solleva un problema che, come la polvere, qualcuno vuole nascondere sotto il tappeto. Potenti consorterie e congreghe ecclesiastiche tendono a mascherare una verità che nessuno sembra voler vedere fino in fondo e che invece Tulli inesorabilmente riporta alla comprensione e consapevolezza di tutti. La Chiesa cattolica ha preteso che i suoi ministri venissero trattati in modo speciale anche quando si sono macchiati di crimini abominevoli, reiterandoli con una serialità che rimanda a personalità mostruose se non a vere e proprie forme di malattia mentale. Perché il Vaticano ha agito e agisce in totale disprezzo dell’infanzia, difendendo e occultando i misfatti di coloro che la violano? Qual è il nucleo dottrinario e ideologico che è a fondamento di una politica di mistificazione e depistaggio? 

 

La situazione attuale, in cui sembra che l’opinione pubblica mondiale abbia aperto gli occhi sul problema della pedofilia nella Chiesa di Roma, modificando rispetto al passato il proprio sentimento e atteggiamento verso i bambini, è il punto di arrivo di un lungo percorso. «La storia dell’infanzia è un incubo dal quale solo recentemente abbiamo cominciato a svegliarci». Così si esprimeva lo storico Lloyd deMause, convinto del fatto che più indietro noi andiamo nella storia e più è probabile che ci imbattiamo in bambini uccisi, abbandonati, terrorizzati e sessualmente abusati. Alcuni studi antropologici, come quello di Marvin Harris, sembrerebbero avvalorare la tesi di deMause. Per questi autori è verosimile, infatti, l’ipotesi che i nostri progenitori della Preistoria siano stati ‘assassini nell’Eden’ in quanto, oltre agli aborti spontanei e alla mortalità infantile, l’unico modo per mantenere stazionaria la crescita della popolazione, perché fosse adeguata alle risorse, era il sacrificio dei neonati. I ‘grandi artisti’ del Paleolitico sarebbero stati infanticidi per necessità di sopravvivenza. Non avevano scelta o si ipotizza che la razionalità avesse preso il sopravvento sulla dimensione affettiva della donna e del bambino? 

 

Già Charles Darwin aveva associato la comparsa dell’uomo nella scala evolutiva con il figlicidio. «I nostri primitivi antenati semi-umani non avrebbero praticato l’infanticidio […] dato che l’istinto degli animali inferiori a noi non è mai giunto a una perversione tale da distruggere regolarmente la propria prole». Le testimonianze del figlicidio in epoca preistorica non depongono però a favore dell’ipotesi di una originaria natura perversa e violenta dell’essere umano, come sembra suggerire Darwin e come successivamente sosterrà Sigmund Freud. Infatti, la presenza di manufatti artistici e opere parietali nelle grotte o en plein air, come a Chauvet in Francia o a Foz Côa in Portogallo, sono prove inconfutabili della presenza di un pensiero irrazionale agli albori della civiltà, non riconducibile alla logica dell’utile immediato e della sopravvivenza. 

Al contrario, tale presenza è indicativa del fatto che la relazione madre-bambino, peculiare dell’uomo, doveva avere elementi psichici e affettivi intensi e prolungati nel tempo. Nei miti greci l’eroe, a partire dalla sua nascita, è minacciato di morte o di abbandono da parte del padre che non accetta l’identità irrazionale del bambino, dopo aver annullato la donna: Edipo, che pure riesce a sfuggire alla morte, diventa come il padre. Il parricidio sarebbe solo una reazione rispetto a una tendenza più primitiva del figlicidio che Laio aveva cercato di mettere in atto.

 

Nel periodo della classicità greca l’abuso sessuale, da parte di insegnanti e pedagoghi, nella paideia filosofica era molto frequente e interessava, nonostante esistessero talvolta espliciti divieti come in Atene, bambini anche al di sotto dei 10-11 anni. Nel monoteismo ebraico il figlicidio è un atto fondante, come nel caso dell’ingiunzione di Dio ad Abramo di uccidere suo figlio Isacco. Lo stesso Abramo abbandonò nel deserto il figlio avuto da un’altra donna. Il sacrificio del figlio corrispondeva all’uccisione della propria realtà interna affettiva, per sottomettersi a una dimensione astratta e trascendente. La parola usata nel Nuovo Testamento per inferno è Geenna, corruzione dell’espressione Ge-innom. Arnaldo Rascovsky, nel suo “Il figlicidio” del 1974, dice: «Innom è una valle esistente vicino a Gerusalemme, schernita dai profeti come il posto in cui si uccidevano i bambini. Geremia (7,2) la chiamò ‘La valle del massacro’». Nell’antichità, per gli ebrei la sodomia nei confronti di un fanciullo sopra i 9 anni poteva essere punita con la morte per lapidazione, mentre un atto simile rivolto a uno di età inferiore non veniva neppure considerato un atto sessuale ed era punito solo con la frusta.

 

Nell’era imperiale romana la prima età della vita era una terra desolata soggetta ad angherie e violenze di ogni genere. Sovente i bambini, denominati voluptates, venivano castrati nella culla per essere destinati ai bordelli. Il termine puer significava contemporaneamente bambino e schiavo. I cristiani dei primi secoli furono accusati di praticare l’infanticidio rituale: Tertulliano li difese attribuendo queste pratiche ai pagani. Durante l’epidemia che verso la metà del III secolo devastò l’impero romano, a Cartagine venivano sacrificati dei bambini per garantire agli abitanti la salvezza e sconfiggere la malattia. Il dissoluto Eliogabalo, di origine siriana, cercò di introdurre a Roma l’infanticidio sacrificale dei figli dell’aristocrazia romana. 

 

Il cristianesimo, in seguito, riprendendo il dettato evangelico, da una parte ci tramanderà l’idea dell’infanzia come di un’età dell’innocenza e dell’ignoranza totale della sessualità, dall’altra svilupperà parallelamente una visione negativa della fanciullezza come debolezza ed errore, nei confronti della quale i grandi non si mostravano particolarmente sensibili o empatici. Aristotele era stato antesignano di una concezione etica negativa del bambino che si imporrà con sant’Agostino e successivamente con la Scolastica: il filosofo considerava la prima età incompiuta e infelice, in quanto incapace di scelte deliberate per un difetto di razionalità. Bisogna tenere presente che «il sentimento dell’infanzia», come ha sostenuto lo storico Lucien Ariès, cioè la coscienza di particolari caratteristiche infantili che distinguono il bambino dall’adulto, si è affermato lentamente nella storia. 

 

Esso, per fare un esempio, sembrava non esistesse nella fantasia mitologica dei Greci, che avevano creato figure di neonati che non sono infanti perché parlano subito dopo la nascita, come fossero già adulti. Nel primo Medioevo i bambini piccolissimi non contavano nulla: in caso di morte precoce, venivano seppelliti sulla soglia di casa come gli animali domestici. In questa usanza c’è una reminiscenza di primitivi sacrifici di fondazione che prevedevano la muratura di neonati e bambini nella struttura delle costruzioni, secondo quanto leggiamo nella Bibbia. Secondo lo storico francese, l’altissimo tasso di mortalità neonatale determinava spesso una sorta di distacco emotivo preventivo da parte dei genitori, e una volta che il bambino fosse cresciuto esso si confondeva, come conferma l’iconografia del primo Medioevo, con il mondo adulto. 

 

Un sentimento diverso dell’infanzia si sarebbe imposto progressivamente lungo tappe ricostruibili attraverso l’iconografia, dal Rinascimento alla pedagogia di Rousseau e alla grande rivoluzione demografica del XIX secolo, che segna il sorgere di una nuova struttura familiare in cui si esalta l’intimità e il contatto emotivo fra genitori e figli. Leggendo le cronache dei giornali sembrerebbe che il passato cruento fatto di violenza e di abusi, a cui abbiamo accennato, sia ancora attuale se è vero che, in un Paese che si ritiene progredito come gli Stati Uniti, la percentuale di pedofili fra i religiosi è dalle 20 alle 200 volte maggiore rispetto alla percentuale di pedofili fra le persone comuni. Ciò avviene all’interno di un’istituzione che, almeno a parole, difende per antonomasia la vita e promuove il rispetto dei più deboli. In Italia, secondo le percentuali rese note dall’arcivescovo Silvano Tomasi, nunzio apostolico della Santa Sede alle Nazioni Unite, considerando che in Italia i sacerdoti diocesani sono circa 51.000, potrebbero essere tra i 500 e i 1.750 quelli coinvolti in casi di pedofilia.

 

Bisogna tenere conto del fatto che da noi l’infanzia è troppo poco tutelata, rispetto agli altri Paesi, e sembra che le istituzioni preferiscano non affrontare la questione piuttosto che scontentare la Chiesa cattolica: il problema è comunque gravissimo ed è quindi legittimo interrogarsi sul perché di questa correlazione fra l’istituzione ecclesiastica, l’ideologia cattolica e il fenomeno della pedofilia. Nel suo libro I papi e il sesso, Eric Frattini documenta ben 17 papi pedofili a partire da san Damaso, nel IV secolo, fino a Giulio III, che muore nel 1555.

 

Più che impegnarsi in processi retroattivi, vale la pena indagare quale sia il pensiero che sottostà al crimine della pedofilia. La violenza contro i bambini, un tempo normale in alcune culture e società, è oggi considerata un fenomeno psicopatologico e criminale. Esso si manifesta con particolare frequenza all’interno di un’ideologia che esalta il controllo razionale del comportamento a scapito dell’affettività. Il teologo Hans Küng ha sostenuto che un fattore predisponente alla pedofilia è il celibato ecclesiastico.

 

Il celibato si è imposto, dopo infinite peripezie durate un millennio, fino a diventare materia di fede vincolante con il Concilio di Trento, che si concluse nel 1563. Il concilio si svolse per la maggior parte sotto il pontificato di Paolo IV, che si distinse per la lotta contro la libertà sessuale e l’omosessualità: i sacerdoti e le suore colpevoli di violare il celibato potevano essere trattati come eretici. In realtà i religiosi raramente venivano puniti: durante questo periodo l’Inquisizione, che vigilava sulla morale, stabilì che se un religioso violentava una donna che fosse svenuta o caduta in stato di incoscienza per qualunque motivo durante la confessione, tecnicamente non aveva avuto rapporti con lei, in quanto non sollecitata a farlo, e pertanto non era punibile. 

 

Lo stesso papa Paolo IV fece firmare ai cosiddetti confessori flagellanti, che facevano spogliare le donne più giovani per frustarle sulle natiche, un documento in cui si dichiarava che tale pratica non provocava in loro nessuna eccitazione sessuale. Tutti firmarono. A Paolo IV, del cui cadavere il popolo si voleva impossessare per farne scempio, succedette nel 1559 Pio IV che confermò i decreti conciliari con la Bolla Benedictus Deus del 1564; essa affermava il celibato sacerdotale in quanto, parole testuali, «garantiva la lealtà del clero, salvaguardando così la ricchezza della Chiesa». Si direbbe oggi, un occhio a Dio e uno alla banca del Vaticano. Si ribadiva che la verginità e il celibato erano superiori al matrimonio, in quanto condizione ideale per tendere alla perfezione. L’inottemperanza di questa norma era considerata eresia. 

Nel periodo della Controriforma vengono riproposte con rinnovato vigore la predicazione di san Paolo e dei Padri della Chiesa e la filosofia di sant’Agostino, che avevano demonizzato la figura di Eva, e quindi la donna come personificazione della concupiscenza e del peccato. Parallelamente, la devozione a Maria aveva creato un ideale femminile disincarnato e asessuato. Il culto di Maria arrivò all’assurdo di contemplare la doppia verginità non solo ante, cioè prima del parto, ma anche post, cioè dopo di esso.

Quanto alle giustificazioni teologiche del celibato dei preti, è chiaro il riferimento all’Eros platonico. Il celibato, o la verginità, come ideale di vita imporrebbe una sorta di sublimazione, per cui le energie della sessualità verrebbero deviate dal loro scopo per essere indirizzate a fini di elevazione spirituale. Va chiarito che l’Eros platonico era sempre in lotta contro il sentimento di un vuoto incolmabile. Il rischio sarebbe stato che, assecondando la parte desiderante dell’anima e le passioni, come anche con la ricerca dei piaceri sensuali, noi ci trasformiamo in bestie condannate a unrapido deperimento. 

 

Il desiderio ci farebbe sporgere sull’abisso del nulla in un movimento incessante di scarica e riempimento senza fine. L’unico modo per guarire dal desiderio, che peraltro in questo caso è solo bramosia cieca, è l’eliminazione del desiderio medesimo: la sublimazione, cioè l’astinenza, è in realtà una desessualizzazione e il suo ideale è l’anaffettività. Il celibato dei sacerdoti, con le sue componenti implicite di castità e astinenza, tende a perseguire l’insensibilità e l’annullamento del corpo attraverso l’eradicazione delle passioni e degli affetti. Non dimentichiamo i santi e le sante che nei secoli, attraverso le pratiche di mortificazione, hanno spesso perseguito volontariamente l’obiettivo dell’impotenza e della frigidità.

Giovanni Paolo II nel luglio del 1993 ha dichiarato, ritornando sul dettato del Concilio di Trento, che «il celibato non è essenziale al sacerdozio e non fu promulgato come una legge, da parte di Cristo», ma bloccò le richieste di dispense e si mostrò duro verso chi lasciava il sacerdozio.

 

Il vero problema non è attualmente il matrimonio, ma le condotte perverse e criminali del clero diffuse su scala planetaria e non più occultabili. La pedofilia è l’esito estremo di un processo di  annullamento della sessualità potenziato da strategie educative: esso tende a creare una desertificazione affettiva. Tutto ciò che è spontaneo e immediato, e quindi potenzialmente esposto al rischio dell’insorgenza del desiderio, viene sottoposto al controllo e al vaglio preliminare della ragione. Il risultato può essere una sorta di manierismo, di artificiosità, di distanza più o meno grande dagli altri, spesso compensata dalla formazione reattiva dell’apparente bontà, carità e altruismo, e dalle finalità sociali e umanitarie. 

L’immagine pubblica spesso contraddice la sfera privata: più la prima si accresce più la seconda è suscettibile di depauperarsi. Il pedofilo è un grave malato mentale, nonostante ciò che afferma la psichiatria americana nel DSM-5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Il bambino rappresenta quell’immediatezza, spontaneità, vitalità che il pedofilo ha irrimediabilmente perduto per vicende personali. Giustamente c’è chi ha definito l’abuso sessuale su di un minore come ‘omicidio psichico’: non ha niente di sessuale in quanto è un’azione, una pulsione se vogliamo usare una terminologia psichiatrica, che va contro la potenzialità psichica ed evolutiva del bambino. Ciò che però è caratteristico del comportamento pedofilo è il suo essere sottoposto a un controllo razionale: se la pulsione omicida, compulsiva e ripetitiva, rappresenta l’aspetto psicopatologico della pedofilia, il controllo razionale gli conferisce una qualità criminale. 

 

Infatti quest’ultimo consente, fino a un certo punto, di evitare le conseguenze penali oltre che l’utilizzo di sofisticate strategie di scelta e di avvicinamento delle vittime. Tradito da una figura importante di riferimento, il minore può andare incontro a uno stato dissociativo, a una grave depressione reattiva, a sensi di colpa intensi che minano il senso della propria identità. Nel caso in cui le vittime siano soggetti prepuberi, ciò che si va a colpire è la possibilità del rapporto uomo-donna.

 

Qualcosa di analogo accadeva nella relazione fra maestro e allievo nell’antica Grecia: la relazione omosessuale era imposta in un momento critico della vita del fanciullo, quando la maturazione del corpo, fondendosi con la realtà mentale, poteva far emergere il desiderio verso la donna. Certo è che le istituzioni ecclesiastiche non solo non sono state in grado di diagnosticare in partenza il problema della pedofilia, ma addirittura lo hanno derubricato a delitto contro la fede, a cui parteciperebbe anche la stessa vittima. 

 

Nel caso della pedofilia è difficile capire come un fanciullo possa essere complice di una violenza che subisce, salvo non ipotizzare come Freud che i bambini siano polimorfi perversi. Secondo Michel Foucault e Daniel Cohn-Bendit, il bambino è addirittura lui l’istigatore o il ‘sollecitatore’. 

Qui si coglie bene il processo finalizzato a colpevolizzare la vittima, che viene ritenuta corresponsabile per attenuare la gravità del gesto dell’adulto. L’Istruzione Crimen sollicitationis, approvata da papa Giovanni XXIII nel 1962, stabiliva che solo i tribunali  ecclesiastici avessero competenza sui crimini sessuali dei preti. Fu mantenuto in vigore dal cardinale Joseph Ratzinger con il suo De delictis gravioribus del 2001, quando era a capo della Congregazione per la dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio. Quest’ultimo documento proibisce, pena la scomunica, la denuncia da parte delle vittime e contiene la dizione «delitto di chierico con minori», secondo la quale il delitto di sollecitazione sarebbe compiuto non contro il minore ma con la sua complicità. Ciò che colpisce è la fatuità, la superficialità con cui la questione è stata affrontata dalle autorità ecclesiastiche. Con un assoluto disprezzo per le conseguenze sulle persone.

 

Le scuse e l’interesse mostrato nel 2010 dall’allora papa Benedetto XVI per le vittime è piuttosto tardivo. Ciò che non tutti sanno è che il problema della sollicitatio ad turpia, dell’istigazione a commettere  atti sessuali, si inserisce nella tradizione stessa del sacramento della confessione e compare per esempio nelle prediche del Savonarola. Il problema giunse al suo culmine proprio nel periodo del Concilio di Trento, quando furono introdotti i confessionali chiusi e si affermò la tendenza dei confessori, in seguito contrastata con grande difficoltà, ad assolvere la persona penitente che veniva considerata complice, se non istigatrice, di un atto sessuale: essendo il sacramento valido anche se somministrato da mani impure, il peccato veniva estinto e non c’era obbligo di confessarlo di nuovo o di denunciarlo. Tale procedura fu condannata con la pena della scomunica latae sententiae esplicitamente introdotta da Benedetto XIV solo nel 1741. 

Ciò che stupisce, e che non viene mai sottolineato, è che le violenze contro i minori nella Chiesa siano state regolamentate in base a un decreto che considera il crimine più grave quello compiuto contro il sacramento della confessione, e non quello contro la persona. Il cedere alla cosiddetta tentazione della carne violentando una donna o all’impulso omosessuale verso un adolescente era ritenuto quasi inevitabile, data la debolezza degli uomini, mentre la violazione da parte del sacerdote del setting del confessionale (un vero e proprio setting psicoanalitico ante litteram, con tanto di esclusione reciproca dello sguardo) era un’eresia.

 

Come ha scritto a suo tempo lo storico Henry Charles Lea: «Il confessore poteva abbandonarsi a qualunque bassezza, purché avesse la cura di procurare che non si potesse provare come il sacramento fosse stato lo strumento diretto della seduzione». Secondo Lea, la sollecitazione è un delitto puramente tecnico, fondato su di una presunta miscredenza riguardo al sacramento e perfettamente staccato dalla morale. La violazione più grave riguarda il modo con cui il sacramento viene utilizzato dal prete che non dovrebbe introdurre finalità improprie nel fare da intermediario fra Dio e il penitente. Con l’Istruzione Crimen sollicitationis, e questa è una novità rispetto al passato, il sigillo sacramentale viene esteso impropriamente all’esterno della confessione vera e propria, con l’obbligo del segreto più assoluto sia dei preti che delle vittime, pena la scomunica.

Il testo della Crimen afferma: «Il crimine di sollecitazione avviene quando un prete tenta un penitente, chiunque esso sia, nell’atto della confessione, sia prima che immediatamente dopo, sia nello svolgersi della confessione che con il solo pretesto della confessione, sia che avvenga al di fuori del momento della confessione nel confessionale, che in altro posto solitamente utilizzato per l’ascolto delle confessioni o in un posto usato per simulare l’intento di ascoltare una confessione». Insomma, praticamente sempre. E ancora: «Nello svolgere questi processi [contro i pedofili, NdA] si deve avere maggior cura e attenzione che si svolgano con la massima riservatezza e, una volta giunti a sentenza e poste in esecuzione le decisioni del tribunale, su di essi si mantenga perpetuo riserbo».

 

È importante sottolineare che la Crimen sollicitationis e il De delictis gravioribus si focalizzano sulla violazione del sacramento della confessione e sullo scandalo che ne deriva. Si passa a considerare non tanto la confessione come evento che si svolge in un tempo e in un luogo definiti, come accadeva dopo il Concilio di Trento con l’introduzione dei confessionali chiusi, ma l’atteggiamento confessionale del prete in toto, che consiste in quell’insieme di strategie attraverso le quali egli esercita la sua autorità sacerdotale ed entra tramite essa in intimità con la vittima. Su quanto è intercorso fra il prete e il ragazzo grava il segreto, così che quest’ultimo subisce due volte la violenza, venendo considerato corresponsabile e complice.

 

La pedofilia viene vista attraverso la lente deformante del sacro. Ma che cos’è il sacro? Possiamo riprendere l’idea che esso potrebbe essersi costituito come totale alienazione ed estraneazione da sé di ciò che è specifico della realtà umana, cioè il pensiero irrazionale. Secondo Rudolf Otto, la dimensione sacrale è «l’irrazionale nell’idea del divino», cioè una sfera misteriosa oltre la logica e la ragione. Il sacro si costituisce come l’esperienza di un’alterità radicale, il cosiddetto Anders, il fascinans et tremendum che abbaglia la mente determinando una reazione di terrore. Verrebbe spontaneo considerare la violenza contro il bambino da parte dei preti pedofili come il risultato di uno sconvolgimento, di un mutamento improvviso che altera tutti i criteri di giudizio e di riferimento etico. Nel tentativo di rapportarsi al sacro, il prete corre il rischio di perdere la sua identità e annullare la propria dimensione umana e affettiva: egli è facile preda dello smarrimento e del terrore, che si traducono in condotte paradossali e perverse. 

Il sacerdote, che dovrebbe essere colui, come dice la parola, che testimonia l’esistenza del sacro, diventa una vittima, destinata a creare altre vittime, del suo aspetto terribile e inquietante. Bisogna ricordare quanto scriveva Ernesto de Martino: la ricostruzione del processo ierogenetico del momento in cui si costituisce l’esperienza del sacro comporta una precisa analisi del rischio di ‘non esserci’, di perdere cioè l’identità e di cadere in forme reificate della presenza. Le manifestazioni psicopatologiche esprimono allora una crisi in atto, fornendo una materia su cui devono intervenire le tecniche religiose per cercare una soluzione.

 

La pedofilia, in questo contesto, è uno specifico modo con cui si risolve nella psicopatologia la ‘crisi della presenza’, vale a dire la crisi di identità che è insita nel processo ierogenetico, cioè nel rapporto con il sacro. Mentre la pedofilia, la pederastia e l’infanticidio nell’antica Grecia o durante l’impero romano erano condotte socialmente accettate e condivise, il prete pedofilo compie un gesto che attualmente è destoricizzato, avrebbe detto sempre Ernesto de Martino, in quanto condannato dalla legge e dalla mentalità comune. 

 

La pedofilia, nel momento in cui si lega alla realtà del sacro, sarebbe la testimonianza di una crisi della presenza, dell’identità che non riesce a risolversi attraverso la dinamica della ‘tecnica rituale’, il cui compito è quello di fornire una configurazione simbolica ai contenuti psichici alienati. Il risultato è una ripetitività incontrollata di impulsi, in cui si manifesta l’aspetto violento e terrificante del sacro, che viene direttamente agita contro soggetti inermi.

 

Il personaggio che meglio esemplifica il rischio inerente alla dimensione sacrale di implodere in un vissuto psicopatologico è Gilles de Rais, il maresciallo di Francia che ha combattuto a fianco di Giovanna d’Arco. Georges Bataille, in un libro dedicato al processo che vide Gilles de Rais imputato per la violenza sessuale e la morte di ben 140 bambini, lo chiama «mostro sacro». Secondo il saggista francese, il cristianesimo implica un’umanità che ha in sé «un apice delirante», un’inclinazione al crimine e all’orrore che esso soltanto, con la prospettiva della redenzione, ha permesso di sopportare.

 

Gilles de Rais, dopo il rogo della pulzella di Orléans nel 1431 e la morte del nonno, potentissimo feudatario, nel 1432, sprofonda quasi di colpo in una megalomania delirante che gli fa dissipare un patrimonio enorme e lo vede protagonista di crimini inenarrabili nei confronti di fanciulli. Con il concorso di complici, questi ultimi venivano sottratti con l’inganno alle famiglie, sodomizzati e squartati. L’infanticidio e lo spargimento di sangue facevano parte di invocazioni e rituali diabolici. Bisogna mettere in evidenza che la parola ‘dia-(b)volo’ è esattamente opposta all’altra, ‘simbolo’.

 

Il simbolo stabilisce dei nessi e dei legami che il diavolo ‘rompe’ violentemente e subdolamente. È come se negli appelli di Gilles al principe del male si esprimesse una frattura che si traduce in una perdita di senso dei valori simbolici, religiosi e cristiani che avevano legittimato sul piano politico la violenza guerriera di Giovanna d’Arco. Il maresciallo di Francia, che pure rimaneva religiosissimo, aveva smarrito le nozioni di bene e di male: invece di sperimentare l’estraneazione mistica delle visioni di Giovanna d’Arco sprofondava nell’agire perverso, alieno da ogni sentimento umano. Egli sedeva sul ventre delle proprie vittime agonizzanti e, assurdamente, rideva: il rituale delirante e privato di infliggere la morte sostituiva un agire criminale alla liturgia della preghiera e della salvezza. La ‘mostruosità’ di Gilles de Rais è l’altra faccia della ‘santità’, il risultato di una deflagrazione simbolica della visione cristiana dell’uomo e del mondo come un rischio sempre presente quando non ci si limiti a una religiosità conformistica e di superficie. Contrariamente a quanto sostiene Georges Bataille, la mostruosità di Gilles de Rais-Barbablù (come fu ribattezzato nelle favole di Perrault) non ha alcuna caratteristica ‘puerile’: anzi, in essa si esprime il totale annullamento della propria infanzia, della propria dimensione irrazionale che viene sostituita con un’anaffettività spaventosa, che non si incrina neppure di fronte alle più sconcertanti efferatezze.

 

I crimini del nobile francese furono perpetrati lungo un arco di oltre otto anni. Tutti sapevano ma nessuno interveniva: i giovinetti del coro ‘I santi innocenti’ istituito proprio da Gilles venivano  regolarmente sodomizzati alla luce del giorno, ma ciò non provocava reazione alcuna sia per la potenza e il prestigio del personaggio, sia per la specificità del trauma che provoca questo tipo di violenza sull’infanzia. È come se lo shock emotivo dell’abuso bloccasse la capacità di reagire, non solo delle vittime ma anche di coloro che sarebbero preposti a difenderle. L’inerzia e la paralisi post-traumatica sono ancor oggi alleati potenti dell’impunità dei pedofili e coinvolgono spesso, sul piano psicologico, l’opinione pubblica e le istituzioni. Gilles de Rais fu arrestato nel 1440 per aver violato l’immunità ecclesiastica, e solo in un secondo tempo confessò gli infanticidi per cui fu condannato all’impiccagione e al rogo. 

 

L’abuso e la violenza contro i bambini ha, come abbiamo mostrato, un carattere ierogenetico ed è quindi un problema con cui le autorità ecclesiastiche da sempre si sono dovute confrontare e hanno dovuto imparare a convivere. La strategia della Chiesa nei confronti della pedofilia è sempre stata quella di evitare lo scandalo e proteggere il confessore, che anche durante il periodo dell’Inquisizione raramente incorreva in pene gravi pur di fronte a eclatanti violazioni. I preti, in virtù di un privilegio di casta, non subivano la tortura e la carcerazione preventiva, e nel caso di auto-accusa spontanea le pene erano ancora più lievi e niente affatto commisurate alla gravità e alla reiterazione delle condotte. 

 

La strategia delle autorità ecclesiastiche, attuale e recentissima, di denuncia e intransigenza è solo il frutto di un necessario adeguamento alle mutate circostanze, dato che il problema è esploso a livello mondiale e non è più occultabile. Ai tempi del Concilio di Trento ciò che preoccupava le gerarchie era il matrimonio e il concubinaggio diffuso dei preti: la pedofilia esisteva probabilmente più di oggi, ma non veniva presa in considerazione, perché si riteneva un pericolo ben maggiore per l’equilibrio istituzionale della Chiesa il rapporto con le donne. In un trattato a favore del celibato, De sacerdotum coelibatu doctrina edito a Varsavia nel 1801, si legge che il matrimonio del prete è incestuoso e che un tale adulterio è assai peggiore della semplice licenza, giacché quest’ultima non è altro che una caduta della carne, mentre il matrimonio equivale a uno scisma, a un’arrogante disobbedienza, che implica un peccato immensamente più grave.

 

Bisogna inoltre tenere presente che nel pensiero del cristianesimo predomina il genere maschile: Dio padre è un uomo che genera, prima di Eva, Adamo. Anch’esso un uomo. E si incarna in un figlio maschio che sceglie dodici apostoli tutti uomini: secondo Paolo di Tarso le donne non dovevano né insegnare né parlare nelle assemblee. Il cristianesimo dei primi secoli fu impegnato nell’operazione di assorbire la filosofia platonica nella propria teologia, grazie soprattutto ai Padri della Chiesa e a Origene. Platone, notoriamente, non amava molto il genere femminile e Origene si evirò: la dottrina cristiana relegava le donne al ruolo di madre e moglie. L’unica emancipazione loro consentita era un percorso verginale, che le rendeva simili a Maria, ma che comunque le escludeva dal sacerdozio. La sessualità e il peccato erano considerati ‘donna’, come Eva, e sono noti gli sforzi di sant’Agostino per poterne venire a capo.

 

Il Concilio di Trento, confermando la supremazia del celibato e della verginità come ideali cristiani, cercò, con esiti più che discutibili, di ripristinare l’ascetismo delle origini e accentuò il carattere maschile dell’istituzione Chiesa rendendo, se possibile, ancora più distante e astratta l’immagine femminile. 

 

Oggi la pedofilia nella Chiesa viene denunciata dall’opinione pubblica e dai media perché è cambiato ulteriormente quello che lo storico Lucien Ariès ha chiamato «il sentimento dell’infanzia», la consapevolezza dei diritti e delle prerogative, sia psicologiche che fisiche, di questa età della vita.

Del cambiamento rispetto al modo di percepire l’infanzia nella situazione storico-culturale attuale è testimonianza un recente avvenimento: il 5 febbraio 2014 il presidente della Commissione Onu sui diritti dell’infanzia, a cui aderisce anche il Vaticano, ha pubblicato un durissimo atto di accusa contro la Santa Sede a proposito della pedofilia. La Commissione sostiene che il Vaticano ha messo in atto politiche che, pur rispettando formalmente la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, nei fatti la violano. Si chiede alla Chiesa cattolica una modifica dell’atteggiamento sulla pedofilia e una revisione del Codice di diritto canonico. 

 

È necessario considerare l’abuso sui minori non un crimine contro la morale, ma contro la persona. È sconcertante la replica ufficiale della Santa Sede affidata a padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana: egli afferma che il rapporto dell’Onu ha limiti gravi per la non comprensione della natura specifica della Santa Sede. L’atto di accusa sarebbe dettato da pregiudizi ideologici, come quelli esistenti nei confronti dell’aborto e della contraccezione, e non da riscontro di fatti oggettivi. Aborto, contraccezione e pedofilia ovviamente non possono essere messi sullo stesso piano.

Rispetto poi a un delitto gravissimo e incredibilmente diffuso, così lesivo della realtà fisica e psichica dei minori, non si può rivendicare una extraterritorialità o il diritto di difendere la sacralità, cioè la natura specifica, della dottrina che di fatto garantisce uno statuto speciale per i suoi ministri.

I preti pedofili vivono su questa terra e devono rispettare le leggi della società in cui vivono, anche se sono convinti che le credenziali vantate rispetto alla sfera del trascendente consentano loro comportamenti caratteristici dei criminali e dei malati mentali.

 

*L’autrice: Maria Gabriella Gatti è neonatologa, pediatra e psicoterapeuta

Questo testo è la prefazione al libro di Federico Tulli “Chiesa e pedofilia, il caso italiano” (L’Asino d’oro edizioni; titolo originale della prefazione: “La pedofilia e il sacro”)